«Negli ultimi 33 anni mi sono guardato allo specchio ogni mattina e mi sono chiesto: “Se oggi fosse l’ultimo giorno della mia vita, vorrei fare ciò che sto per fare oggi?” E ogni volta che la risposta è stata “No” per troppi giorni di fila, ho capito che bisognava cambiare qualcosa».
In attesa del giorno in cui non sentiremo più il bisogno di citare Steve Jobs per dire qualcosa di ispirato e motivante, stiamo vivendo giorni in cui le domande più frequenti riguardano come vogliamo lavorare oggi e in futuro.
È passato solo un anno, non 33, eppure i quesiti relativi al modo in cui svolgiamo le nostre attività, alle relazioni che ci connettono ai colleghi e alle aziende di cui facciamo parte, alla flessibilità effettiva che viene riconosciuta o negata al nostro ruolo di professionisti, ai modelli organizzativi e culturali che potrebbero introdurre dinamiche ed equilibri diversi da quelli che finora hanno caratterizzato il rapporto vita-lavoro sembrano provenire da un ben più lungo periodo di intuizioni e dubbi sottaciuti.
Per continuare con le citazioni, si potrebbe dire che ormai il dado è tratto, ed è tempo di agire: non tanto per onorare formalmente e superficialmente la retorica dello smart working, ma per cogliere l’opportunità di “cambiare qualcosa”, ora che le condizioni mutate ci permettono di riflettere con cognizione di causa su ciò che vogliamo davvero e sulle modalità più efficaci per trasformare un’aspirazione in realtà.
Superare il debito organizzativo
In un articolo pubblicato a inizio marzo su Agenda Digitale, Giuliano Pozza – Chief Information Officer dell’Università Cattolica del Sacro Cuore – parla di un debito che accomuna gran parte delle aziende, in Italia e non solo: il debito organizzativo.
Il debito organizzativo (concetto mutuato da quello di debito tecnico) rappresenta lo scotto che ogni azienda paga a causa dell’accumularsi, al suo interno, di una serie di complessità non necessarie al suo buon funzionamento – pensiamo per esempio alla burocrazia interna o ai sistemi di verifica e controllo dei lavoratori – e che rendono difficoltosi e macchinosi il lavoro e la collaborazione tra le persone che ne fanno parte.
Questo debito, tenuto finora sotto controllo grazie alla compresenza fisica delle persone nei luoghi di lavoro, si è manifestato in tutta la sua negatività proprio nell’ultimo anno, quando il lavoro da remoto si è imposto e i nodi sono venuti al pettine. Per indicare i casi estremi Pozza utilizza l’espressione sprovveduti indebitati, ovvero realtà organizzative che sono corse ai ripari senza piani di trasformazione e strumenti adeguati, mettendo di conseguenza a rischio il benessere, la motivazione e la produttività dei loro lavoratori.
Toccato con mano cosa significa – e quanto costa – mantenere una cultura aziendale obsoleta, basata su logiche di controllo e incapace di costruire un senso di appartenenza che superi le mura dell’ufficio, c’è ora la possibilità di passare all’ormai famoso lavoro intelligente, ovvero a ciò che ognuno di noi vorrebbe davvero fare e vivere ogni giorno.
In che modo il lavoro può essere intelligente?
I fattori che permettono di definire intelligente una modalità di lavoro o una struttura organizzativa sono svariati, e coprono differenti ambiti della vita aziendale e professionale.
In linea di principio, il passo che si chiede di compiere è quello verso modelli organizzativi basati sull’empowerment delle persone. Dal 1977, parlare di empowerment in ambito lavorativo significa studiare e applicare strategie e processi che permettano a ciascun lavoratore di sviluppare e vedere riconosciuta una certa discrezionalità nello svolgimento delle proprie attività, andando quindi a superare strutture gerarchiche troppo rigide. Successivamente, le riflessioni su questo tema hanno portato allo sviluppo di un pensiero che vede nell’empowerment uno strumento di management in grado di responsabilizzare i collaboratori a tutti i livelli, stimolandone l’impegno e la motivazione.
Questo cambiamento culturale e di mindset si accompagna a considerazioni pratiche che riguardano, nel contesto storico attuale, il ripensamento degli spazi di lavoro, gli investimenti tecnologici, l’elaborazione di nuove policy e regolamenti aziendali che tengano conto delle inedite condizioni in cui ci troviamo a operare e collaborare, e che riconoscano e tutelino le esigenze e i bisogni nati da queste trasformazioni.
Smart Working Village: conoscenze ed esperienze per riprogettare il lavoro
Dato l’ampio ventaglio di azioni e competenze da mettere in campo per dare vita al lavoro intelligente che – almeno in teoria – iniziamo a intravedere all’orizzonte, ritrovarsi e condividere con degli esperti i differenti punti di vista e le esperienze sul tema può essere d’aiuto per non continuare a navigare a vista.
Nel caso foste alla ricerca di ispirazioni concrete e pratiche, vi segnaliamo che il 4, 5 e 6 maggio si svolgerà Smart Working Village, prima tappa online di un percorso che porterà alla nascita di una community dedicata al lavoro intelligente, basata sullo scambio e l’interazione di tutti i suoi membri – che attualmente comprendono formatori, esperti ed imprenditori impegnati nella costruzione e diffusione di un approccio al lavoro orientato alla centralità delle persone e al potenziamento di produttività ed engagement attraverso percorsi di innovazione organizzativa e tecnologica.
Nel corso delle 3 giornate verranno approfonditi i temi legati alla trasformazione degli stili di leadership e management, alle possibilità di comunicazione e collaborazione a distanza, ai nuovi equilibri che permettono di migliorare processi e performance, anche attraverso la presentazione di best practice.
Ultimo ma non ultimo, Smart Working Village ha anche un altro importante obiettivo: raccogliere fondi per sostenere le attività della onlus Make a Wish Italia.
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