La gamification è forse l’esempio più lampante di una pratica che, introdotta in principio per alimentare customer engagement e customer loyalty, è stata successivamente rivolta all’interno delle organizzazioni per stimolare l’employee engagement o dare un volto nuovo alle attività di formazione e miglioramento delle performance.
Sull’onda dell’entusiasmo per i risultati ottenuti applicando questo nuovo strumento, però, la cosa è un po’ sfuggita di mano; il rischio principale di questa tendenza generalizzata a trasformare la gamification in una vera e propria moda, applicandola indiscriminatamente a qualsiasi tipo di attività aziendale per renderla più appealing è quello di danneggiarne seriamente efficacia, potenzialità e credibilità.
Per decidere quindi se e quando applicare il gioco e le dinamiche ludiche a uno specifico progetto aziendale si possono fare tre tipi di considerazioni, come suggerito da Giovanna Prina e Simona Mirano, rispettivamente partner e consulente di bbsette.
La prima riguarda l’adeguatezza o meno dell’approccio ludico rispetto agli obiettivi che si vogliono raggiungere, ai comportamenti che si vogliono ispirare e a ciò che li promuove o li frena. La seconda richiede di riflettere su quale sia la modalità di apprendimento propria delle persone coinvolte in relazione all’argomento da trattare. La terza, infine, riguarda il tipo di supporto più opportuno da utilizzare per la specifica attività, che va individuato ─ ancora una volta ─ in funzione degli obiettivi e dei partecipanti: la gamification può essere molto tecnologica, è vero, ma questo non è sinonimo di efficacia a priori.
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