“Nessuno si rendeva conto che, risparmiando tempo, in realtà risparmiava tutt’altro. […] E quanto più ne risparmiavano, tanto meno ne avevano“: questo scriveva Michael Ende nel 1973 in una delle sue opere più famose, Momo. Una considerazione sul tempo e sull’utilizzo che ne facciamo più che mai valida oggi, a giudicare dall’articolo pubblicato da Lelio Demichelis sul sito di Fondazione Feltrinelli, Perché è scomparso il tempo?, che riflette proprio sulla distinzione tra tempi di lavoro e tempi di vita – ammesso che tale distinzione esista ancora.
Si direbbe che, tutti presi dalla paura di perdere il lavoro a causa dell’evoluzione della tecnica, abbiamo trascurato di riflettere su una tendenza altrettanto problematica: non sono più le macchine ad adattarsi a noi e ai nostri tempi, bensì siamo noi ad adeguarci al loro ritmo, funzionamento e logica. Una logica, spiega Demichelis, strumentale e calcolante, tesa ad azzerare i tempi morti a vantaggio di una produttività e di un profitto costanti, che ci spinge a impiegare il nostro tempo in modo sempre più esaustivo e accelerato e a identificarci con le nostre performance.
Cosa fare per limitare i danni in termini di stress e alienazione connessi a un simile atteggiamento nei confronti della tecnologia e dei suoi recenti e costanti sviluppi? Un buon inizio potrebbe essere quello di tutelare e preservare i tanto vituperati tempi morti o meglio, citando Demichelis, “quei tempi di vita – lentezza, emozione, poesia, sensualità, responsabilità, riflessione, sguardi, conoscenza, sogno, immaginazione, utopia – che facevano l’uomo libero e capace di autonomia“.
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