Dal welfare aziendale al community care

community careIl customer care si basa sull’assunto del cliente al centro, e questo paradigma è stato naturalmente esteso all’interno delle organizzazioni, orientando l’employee care a massimizzare la soddisfazione e il benessere di ogni singola persona. La necessità di trovare un equilibrio in settori labour intensive tra la scala vasta e la giusta personalizzazione dei servizi ha spinto verso la definizione di cluster più o meno ampi.

L’emergenza Covid-19 potrebbe però aver dimostrato alcune criticità di questo modello o, meglio, potrebbe aver rivelato delle opportunità ancora inespresse. Il modello di employee care basato sulla massima soddisfazione di un individuo parte dal principio che ciascuno determina in modo autonomo bisogni, preferenze e valori che sono oggetto di analisi per divenire i descrittori dei diversi cluster. E, ovviamente, ciascuno è libero di desiderare e credere ciò che vuole.

Durante il Covid è accaduta una cosa “rivoluzionaria”: il comportamento individuale è stato messo sotto osservazione, avendo conseguenze sulle vite degli altri. Abbiamo sperimentato la riduzione drastica delle libertà fondamentali e misurato bisogni, preferenze e valori personali confrontandoli con l’emergenza sanitaria, l’obbligo morale e legale di proteggere i più fragili, l’applicazione di leggi che solo pochi giorni prima avremmo giudicato inaccettabili.

L’idea stessa di benessere individuale è divenuta dipendente dal benessere collettivo fino, in alcuni casi, a identificarvisi sulla base di ragione e sentimento. Ragione, perché una comunità Covid-free è una comunità sicura; sentimento, perché i vissuti collettivi tendono a ridurre differenze e dissonanze.

L’esperienza della pandemia

All’interno della nostra azienda sono diversi anni che le politiche di welfare sono gestite con un approccio (anche) data driven, per via delle grandi dimensioni raggiunte in pochi anni (>4.000 persone). Nei primi mesi del lockdown anche i dati in nostro possesso hanno dimostrato che le lavoratrici e i lavoratori avevano sviluppato una crescente attenzione verso la comunità e il territorio. Anche perché, in realtà ampie ma circoscritte (l’headquarter di Network Contacts è a Molfetta), gli anelli di protezione si ampliano naturalmente per il numero e il tipo di relazioni che gli individui intrattengono tra di loro.

Ciò ha determinato il superamento della logica dentro/fuori. Se tradizionalmente le attività rivolte all’esterno (clienti, partner e fornitori) erano divise da quelle rivolte all’interno (lavoratrici e lavoratori, collaboratori e consulenti), oggi sono saldate in un’unica prospettiva. Non significa che sono – che siamo – tutti uguali, e che un’iniziativa di welfare da oggi vada bene anche come attività di caring verso il cliente, anzi. Significa che bisogna tener conto delle relazioni che, a partire da un individuo, si ramificano nella collettività intercettando individui che possono ugualmente essere in relazione con la società o con i suoi dipendenti, ma con ruoli differenti.

Esclusivamente in riferimento al benessere fisico durante l’emergenza sanitaria, il ragionamento comporta l’ampliamento degli individui da attenzionare: non è sufficiente mettere in sicurezza i lavoratori dotandoli di strumenti di protezione o permettendogli di lavorare da casa, poiché il virus può insediarsi anche nelle loro case attraverso un corriere, un parente che a sua volta è un fornitore o cliente dell’azienda, un incontro occasionale in strada.

Le modalità di trasmissione del virus, simulando l’effetto domino, hanno imposto una doppia articolazione alle strategie di protezione che si è concentrata contemporaneamente sull’immediatamente vicino e sull’estremo più lontano. In sintesi, il caring in questo caso ha riguardato l’intera comunità. Un’utopia che deve essere declinata sul piano della fattibilità, commisurando l’intenzione con le risorse e le forze a disposizione.

Dalla resistenza all’esistenza

Cosa ha fatto Network Contacts, in accordo con i principi di corporate citizenship che ispirano il Gruppo Activa di cui fa parte? Abbiamo cambiato il nostro modello grazie al – e non per colpa del – Covid: siamo passati dall’employee care al community care.

Individuati i due perimetri (il vicino che includeva tutte le nostre persone e l’estremamente remoto che rappresentava il Paese come comunità), abbiamo delineato tre obiettivi, coerenti con le misure indicate dalle Autorità e calati in una timeline di breve, medio e lungo termine che descrive la traiettoria dalla resistenza all’esistenza:

  1. prestare la prima assistenza, agevolare il cambiamento, sostenere le persone nei loro bisogni essenziali;
  2. restare – e far restare – tutti a casa;
  3. impegno concreto sul territorio e implementazioni sostenibili per esistere nel tempo.

Nella fase uno, Caring First, la situazione non era ancora drammatica, però nascevano bisogni impellenti, per esempio a causa della chiusura delle scuole, del caos informativo, dell’urgenza dei primi decreti. Al nostro interno abbiamo agito sulla turnazione dei genitori, per dare loro il tempo di consolidare nuovi equilibri familiari, e attivato subito servizi psicologi, mettendo a disposizione personale qualificato. Al nostro esterno abbiamo erogato i servizi essenziali utili alla collettività per poter restare a casa in sicurezza e abbiamo attivato il numero verde regionale per le informazioni.

Nella fase due, Quota 100%, abbiamo remotizzato 4.000 persone in 10 giorni al nostro interno, anche grazie al lavoro dei colleghi di altre società del Gruppo e agli investimenti tecnologici fatti nel passato; a livello di comunità abbiamo sostenuto tutte le organizzazioni per avere continuità operativa da remoto: scuole, Comuni, aziende.

Nella fase tre, Solidi e Solidali, abbiamo donato 30 PC e 3 ventilatori polmonari all’ospedale di Bisceglie; al nostro interno abbiamo implementato le soluzioni di smart working per renderle sempre più efficaci ed efficienti, ma abbiamo anche lavorato sulla parte relazionale, promuovendo aperitivi digitali, challenge, video contest, ecc.

Gli elementi chiave per un welfare sempre vicino ai lavoratori

Il welfare offre soluzioni alle difficoltà delle persone, ma le persone cambiano, cambiano le loro esigenze e quindi deve cambiare anche il welfare; per questo gli elementi indispensabili per un welfare vicino e rispondente sono la capacità di ascolto e la capacità di cambiamento.

Quando è nata, Network Contacts contava 40 persone; è cresciuta rapidamente ed è arrivata subito a 400. Oggi, dopo 10 anni, siamo oltre 4.000. Ma non sono solo i numeri: 10 anni fa la popolazione era composta in prevalenza da donne, madri e giovani; oggi è molto più adulta e più mista. 10 anni fa abbiamo aperto un asilo nido aziendale. Oggi che quei bambini sono cresciuti e quei giovani genitori sono diventati adulti orientati ai valori di inclusione e sostenibilità, abbiamo attività per gli adolescenti, casa dell’acqua, auto elettrica, Amazon Locker, stiamo per aprire un alimentari interno gestito da una cooperativa di disabili e abbiamo consolidato convenzioni con aziende e servizi del territorio, come cliniche e centri medici, palestre, negozi, cinema, meccanici, oculisti, ecc.

Il giusto approccio alla comunicazione nel welfare

Il problema della comunicazione nel welfare è spinoso: da un lato c’è il pericolo di un eccesso di comunicazione che scade nella pubblicità; dall’altro il pericolo di essere carenti, non raggiungere gli obiettivi e risultare distanti. Quindi si tende a differenziare i canali, scegliere forme ibride, procedere by opportunity. La questione è difficile, ma la soluzione potrebbe nascondersi nel suo risvolto: se ci chiedessimo non come comunicare ma cosa comunicare, forse potremmo avvicinarci a una risposta.

Non si comunica la singola attività, né si deve perseguire una comunicazione one-to-one in cui la richiesta dell’individuo diventa un input per una reazione dell’azienda; questo poteva essere prima, quando la popolazione era ridotta e omogenea e la comunicazione avveniva in modo empatico, durante conversazioni informali.

In un’azienda di oltre 4.000 persone dislocate sul territorio, il welfare si pone l’obiettivo del benessere del gruppo e deve mettere il gruppo in condizione di esprimere esigenze di gruppo. In un certo senso, il welfare diventa indipendente dalle persone, servendo gli interessi del gruppo: propone una visione e stimola un ragionamento in seno al gruppo, durante il quale chi si occupa di welfare deve essere bravo a carpire i segnali per aggiustare la rotta.

Ciò che dobbiamo comunicare è la presenza dell’azienda: l’azienda non si protende sui suoi dipendenti, ma percorre una propria visione che nasce dall’ascolto delle esigenze dei suoi dipendenti e si sviluppa verso un purpose. Nel nostro caso, il community care.

La cultura digitale ha esercitato un influsso molto forte sulle nostre abitudini e una delle cose che sono cambiate è nel modo in cui accediamo all’informazione. Prima era importante sapere qualcosa; ora è importante sapere dove trovare ciò che ci serve.

In concreto, noi abbiamo agito sul contenitore: un’applicazione dove le persone possono sia trovare l’elenco delle attività, sia scambiarsi altre informazioni, condividere passioni, parlare. Questo spazio privato e collettivo, libero e gerarchizzato, fruibile quando, come e da dove si vuole è un passo avanti nella comunicazione aziendale, perché supera e integra i concetti di bottom-up e top-down.

È interessante notare che anche questo è un concetto che noi abbiamo mutuato dagli approcci del nostro lavoro, il customer care, sempre più omnicanale, dove i touchpoint e i momenti di contatto sono diffusi. Questo a riprova del fatto che stanno cadendo i limiti mentali che tenevano compartimentati i settori: ecco come Network Contacts sta andando verso l’approccio del community care.

Articolo a cura di Network Contacts – Gruppo Activa

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