C’era una volta – esattamente 47 anni fa – un piccolo regno nella regione himalayana, povero ma felice. Nel 1972 il sovrano del Bhutan – questo il regno a cui ci stiamo riferendo –, stanco di vedere la prosperità delle nazioni misurata esclusivamente in base al loro prodotto interno lordo, decise di introdurre una nuova metrica: la felicità interna lorda.
Da qui – ricordando anche quanto già sostenuto fin dal 1776 all’interno della Dichiarazione d’Indipendenza americana – le Nazioni Unite hanno trovato ulteriore slancio per organizzare, nel 2012, la prima conferenza sulla felicità, alla quale hanno preso parte diplomatici, organizzazioni religiose, studiosi e rappresentanti della società civile provenienti da tutto il mondo, ma accomunati da una medesima convinzione: il progresso umano non si esaurisce nella crescita economica.
Da quel momento la ricerca della felicità è tornata ad essere riconosciuta come un’aspirazione universale capace di incarnare lo spirito dei Millennium Development Goals, obiettivi in base ai quali ciascuno Stato dovrebbe orientare le proprie politiche di sviluppo. In tale occasione hanno inoltre preso avvio attività di analisi e ricerca i cui risultati vengono raccolti ogni anno nel World Happiness Report, e che hanno portato prove ulteriori di come la libertà politica, un tessuto sociale caratterizzato da relazioni profonde e l’assenza di corruzione abbiano un ruolo ben più fondamentale del guadagno economico quando si tratta di determinare i livelli di benessere e felicità delle persone.
Ecco allora che la felicità non è più solo un fatto privato e personale, ma rivela il suo carattere sociale e collettivo: ciascun individuo non può essere un’isola di felicità scollegata e indipendente dal contesto in cui si colloca. Il nostro benessere dipende anche dalle persone che ci circondano, dalle relazioni che ci connettono, dalle attività che svolgiamo e che contribuiscono alla nostra autorealizzazione.
Va da sé che questa teoria della felicità chiama in causa anche il lavoro e le strutture organizzative in cui esso si svolge: partite dalla stesura di veri e propri manifesti della felicità sul lavoro, le aziende iniziano ora ad accogliere al loro interno la nuova figura professionale del Chief Happiness Officer (CHO), a riprova del fatto che la consapevolezza relativa allo stretto legame tra felicità nell’ambiente di lavoro, produttività, motivazione, creatività e successo si sta progressivamente diffondendo.
Ma chi è e che cosa fa il manager della felicità? Nessuno può saperlo meglio di un CHO in carne ed ossa, ovviamente: per questo ci siamo rivolti ad Angelica Villa, Chief Happiness Officer di Base Milano, un’impresa sociale (no profit) che lavora nel settore culturale, con un totale di 14 dipendenti.
Quali sono i compiti del CHO e quali azioni può mettere in atto per promuovere la felicità nel luogo di lavoro?
“Parlando di Chief Happiness Officer è bene chiarire subito un punto fondamentale: il CHO non è la persona che rende tutti felici, ma colui/colei che ascolta, propone idee, programma, misura, monitora. Questo per dire che non si tratta di una figura leggera, come il nome potrebbe suggerire, ma di un vero Project Manager. Inoltre è bene sottolineare che la felicità al lavoro è un tema collettivo e non individuale. Il CHO si occupa quindi di stimolare una felicità collettiva, di gruppo, dell’organizzazione, e non del singolo individuo. Il tema della felicità al lavoro si compone poi di quattro importanti pilastri:
- valori – l’accordo armonico tra i valori delle persone e quelli della realtà organizzativa in cui lavorano è fondamentale. Un’area di lavoro importante è dunque l’allineamento valoriale e l’approfondimento di quella che è la cultura organizzativa;
- contesto (spazio, tempo, servizi) – azioni importanti possono essere attivate rispetto al contesto lavorativo. La conformazione degli spazi, infatti, può incidere positivamente o negativamente su molti aspetti delle persone, come la creatività, la collaborazione e la capacità di concentrarsi. Altra dimensione fondamentale è il tempo, non solo in termini di work-life balance ma anche di gestione del tempo di lavoro. Interessanti ragionamenti, infine, possono essere fatti intorno al design dei servizi per i lavoratori;
- relazioni – relazioni sane, mature, professionalmente intime sono condizioni necessarie per un’organizzazione felice;
- risultati – una persona che lavora, per quanto possa essere in uno spazio piacevole e creativo, all’interno di un’organizzazione di cui condivide i valori e in cui le relazioni sono positive e generative, per essere felice deve necessariamente percepire il frutto del proprio lavoro, sia individuale che dell’organizzazione nel suo complesso”.
Quali competenze servono per essere un buon CHO?
“Ne citerei tre: empatia, creatività e capacità di gestione dei progetti e dei processi”.
Da quanto tempo sei Chief Happiness Officer? Che attività svolgi e prevedi di svolgere in futuro?
“Sono ufficialmente diventata Happiness Manager un anno fa. La nostra è una sperimentazione, quindi quello che spero di ottenere in futuro è la capacità di modellizzare e confermare alcune progettualità intraprese”.
Come è nata la decisione di introdurre a Base Milano la figura dell’Happiness Manager?
“Il settore in cui operiamo è quello dell’economia della conoscenza, all’interno del quale la disponibilità di creatività è una leva strategica e competitiva. Dato che la creatività risiede nel capitale umano, è venuto abbastanza naturale accogliere questi input. Base inoltre si rappresenta come una learning machine, un simulatore del contesto di lavoro in continuo cambiamento. Da parte mia, ho messo a disposizione la mia sensibilità verso queste tematiche, stimolando l’organizzazione ad acquisire un approccio strutturato al tema dell’happiness, e preso in carico la strategia e la messa a terra delle azioni”.
Quali risultati hai ottenuto finora?
“Dal punto di vista dei valori e delle relazioni stiamo portando avanti un percorso di evoluzione organizzativa, supportato da una councilor professionista. È stato inoltre svolto un percorso di mindfulness e una sperimentazione di job rotation. Abbiamo ridisegnato gli spazi di lavoro, introdotto lo smart working, il piano MBO e le premialità in welfare. È stato attivato un servizio di car sharing aziendale e una portineria sociale che, oltre a offrire la possibilità di recapito posta e pacchi, include servizi come il mercato a filiera corta, ovvero la consegna settimanale di prodotti locali presso la nostra sede. Ogni attività sta all’interno di un progetto complessivo, e viene valutata attraverso questionari periodici che ne misurano l’impatto sulla felicità dell’organizzazione”.
Emma Pisati
HEI Human Experience Insights
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