Quest’anno il nostro Statuto dei Lavoratori ha compiuto cinquant’anni. Con qualche difficoltà e qualche intervento di modifica ha attraversato diverse fasi storiche del nostro Paese, partendo dalle rivendicazioni della classe operaia esplose durante l’autunno caldo – che miravano a veder riconosciuto il diritto di intervenire nella definizione delle politiche e delle strategie aziendali, nonché porre fine alle dinamiche di sfruttamento e discriminazione ideologica presenti allora negli ambienti di fabbrica – fino ad arrivare a fare i conti con il mercato globale odierno, caratterizzato da una sempre maggiore flessibilità, dalla frammentazione e temporaneità degli impieghi disponibili.
Un percorso che ha quindi attraversato e conosciuto una profonda trasformazione dei tessuti produttivi e imprenditoriali, che ci ha condotti dall’economia di fabbrica all’economia dei servizi e della conoscenza. Ed è proprio questa rivoluzione degli assetti economico-sociali ad alimentare tutte le riflessioni e discussioni circa l’opportunità di superare, mantenere o modificare lo Statuto.
Le differenze, come abbiamo già accennato, riguardano diversi aspetti: partiamo dai lavoratori. Come evidenziato da un articolo pubblicato sul sito di Fondazione Feltrinelli, la classe lavoratrice odierna è caratterizzata da una maggiore atomizzazione, fluidità e frammentazione contrattuale, politica e produttiva rispetto al passato, da cui deriva una seria difficoltà a costituire un fronte comune per promuovere retribuzioni eque, diritti e tutele, capace di unire le varie galassie di lavoratori atipici, autonomi, dipendenti.
La crisi scatenata dalla pandemia di Covid-19 ci ha mostrato chiaramente le contraddizioni, le fragilità, le diseguaglianze di un sistema in cui convivono professionalità e attività lavorative separate, dal punto di vista dei salari e delle tutele, in modo talvolta abissale – si pensi alle recenti proteste di rider e lavoratori dello spettacolo, sempre alle prese con precarietà, redditi insufficienti, diritti e tutele limitati, quando non addirittura assenti.
Già da prima dell’emergenza sanitaria, nel nostro Paese più di un lavoratore su dieci è a rischio povertà (la cosiddetta in-work poverty) e più di 4 milioni di persone operano nell’economia sommersa. Benché quindi si stiano riscoprendo e valorizzando modelli organizzativi e percorsi strategici volti a mettere al centro delle attività di governance aziendale i lavoratori, la loro soddisfazione e le loro esigenze, è altrettanto vero che – allo stato attuale – avere un contratto di lavoro non equivale ancora a garantirsi una condizione di benessere all’interno della società.
Non dimentichiamo poi le discriminazioni di genere nei luoghi di lavoro e nei percorsi di carriera, le difficoltà incontrate dai giovani a entrare dignitosamente nel mondo del lavoro senza rimbalzare da uno stage o da un tirocinio formativo all’altro, ricevendo compensi scarsi o nulli.
Dignità e benessere: cosa mantenere e cosa cambiare nello Statuto dei Lavoratori
Dal momento che la tutela e la valorizzazione della dignità e del benessere delle persone hanno ricadute positive sulla qualità delle performance e sui livelli di engagement e produttività, è evidente che tutte queste riflessioni non possono lasciare indifferenti le aziende né chi si occupa di gestire e mettere al centro le persone all’interno delle organizzazioni.
Non a caso l’Associazione Italiana Direzione Personale (Aidp) si è espressa sull’argomento, sottolineando come l’80% dei suoi iscritti auspichi una riforma dello Statuto dei Lavoratori affinché sia promossa una maggiore inclusione e un aggiornamento delle norme in esso contenute, che le adegui alle trasformazioni già accennate del mercato del lavoro.
In particolare, l’attenzione Aidp si concentra sulle trasformazioni tecnologiche che hanno messo in discussione l’essenza stessa del lavoro tradizionalmente inteso (sganciandolo, per esempio, da limiti stringenti e rigidi di spazio e tempo) e su alcuni valori espressi dallo Statuto che tuttavia sono rimasti incompiuti (si pensi per esempio alla centralità e all’importanza attribuite – sulla carta – all’istruzione, alla formazione e alla libera espressione dei lavoratori).
«In questi cinquant’anni lo Statuto ha subito alcune modifiche – si pensi alla revisione dell’articolo 18 – ma il suo impianto di fondo è rimasto lo stesso: mostra il segno del tempo» ha dichiarato Isabella Covili Faggioli, presidente Aidp. «Mentre celebriamo il suo valore, anche simbolico, contestualmente riconosciamo l’esigenza di una sua riforma tesa a proiettare lo Statuto nel futuro. È ora di pensare a un nuovo Statuto di tutti i lavoratori, calato in un contesto profondamente diverso da quello delle origini. Si pensi alla polarizzazione del mercato del lavoro tra iper e ipo-tutelati, agli impatti del progresso tecnologico sui processi produttivi, alla discontinuità lavorativa, all’arretramento dei corpi intermedi. Per questo» ha concluso, «ribadendo il valore dello Statuto come perno dell’idea del lavoro e strumento di promozione della persona umana e dei suoi valori, Aidp è a favore di modifiche volte al suo rinnovamento e alla sua attualizzazione».
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