Cultura e diritto alla disconnessione: lo smart working zoppica ancora

disconnessione smart workingMiti sfatati, nuove consapevolezze apprese, molti passi da fare per passare dall’home working allo smart working vero e proprio. Il lockdown si lascia alle spalle aziende e lavoratori con uno sguardo più lucido sulla questione rispetto a qualche mese fa.

Durante il periodo di restrizioni dovute alla pandemia, Anra e Aon hanno condotto l’indagine Lo smart working in Italia, tra gestione dell’emergenza e scenari futuri. Ecco cosa è emerso.

Smart working in Italia: mai più senza?

Il primo punto analizzato dalla ricerca – che ha coinvolto prevalentemente grandi, piccole e micro aziende – è l’incidenza che questa esperienza avrà sulla nostra vita lavorativa. Se prima della pandemia solo il 31% dei lavoratori poteva usufruire dello smart working (spesso in modo limitato), quelli che oggi continuano a svolgere le proprie attività al di fuori dell’ufficio sono ben l’80%.

Secondo i lavoratori, inoltre, il 70% delle loro mansioni può tranquillamente essere svolto da remoto, nonostante si ammetta qualche difficoltà a livello di pianificazione e gestione delle attività.

Strumenti, cultura, diritto alla disconnessione: dobbiamo migliorare

Prima che l’emergenza sanitaria imponesse il lavoro a distanza, ciò che più preoccupava le aziende in relazione allo smart working erano le possibili problematiche legate a gestione, pianificazione e controllo delle attività (44%), strumenti di lavoro inadeguati (29%) e calo della produttività (26%).

Tutti timori, questi, che denunciano la prevalenza di una cultura aziendale non certo all’insegna di fiducia reciproca e condivisione di obiettivi e valori.

Alla prova dei fatti, tuttavia, la produttività ha dimostrato di non essere affatto un problema, mentre più difficoltose si sono rivelate le relazioni con clienti e terze parti (31%), cui si è aggiunta la problematica delle ripercussioni dell’isolamento sullo stato d’animo e sull’engagement delle persone (30%), in parte mitigato da iniziative come coffee break o aperitivi digitali e da servizi aggiuntivi come corsi di formazione o supporto psicologico e alla genitorialità.

Note dolenti si sono registrate anche sul fronte del work-life balance: oltre al disagio creato dalla mancanza di separazione tra ambiente domestico e ambiente di lavoro (48%), nel 58% dei casi a mancare è stato il diritto alla disconnessione, con la conseguente difficoltà a limitare le ore dedicate alle attività lavorative.

«La ricerca evidenzia un cambio epocale nelle relazioni fra azienda e lavoratore: lo smart working implica nuovi sistemi di controllo e di delega, e un’accresciuta responsabilizzazione del lavoratore circa l’organizzazione del suo lavoro, che comunque sarà svolto a distanza in misura crescente. La pandemia ha accelerato notevolmente un processo già in atto, coinvolgendo nello smart working le aziende medio-piccole, le persone meno giovani, le regioni e i settori più arretrati tecnologicamente» ha commentato Paolo Rubini, presidente onorario Anra.

«Questa accelerazione verso un nuovo paradigma di vita potrà portare nel tempo a raggiungere una nuova normalità, nella quale sarà possibile trovare un equilibrio tra esigenze lavorative e personali, passando da una concezione del lavoro per sistemi tradizionali al lavorare per obiettivi» ha aggiunto Alessandro De Felice, presidente Anra. «L’esperimento sociale di massa può diventare un incubatore per una società più sostenibile, nella quale una maggiore fluidità dei flussi di persone avrà positive ricadute sul traffico e dunque sull’inquinamento, sul consumo più responsabile delle risorse disponibili e per le aziende un passo in avanti verso la resilienza».

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