Diverse marketplace: la pluralità ci rende ricchi

diversity_management_copertinaOltre alle donne c’è di più”: ecco il possibile refrain per non rischiare di trattare in modo riduttivo il tema del diversity management in azienda. Se è vero infatti che le prime destinatarie di azioni e iniziative antidiscriminatorie sul luogo di lavoro sono state storicamente le donne, quando si parla di diversity e inclusion oggi il raggio d’azione deve essere ben più ampio, e contemplare non solo la gender diversity, ma anche le differenze di età, orientamento sessuale, cultura, religione e la disabilità. Un impegno a 360 gradi, insomma, che abbiamo esplorato il 20 marzo in occasione del nostro Talk About dedicato appunto al diversity management.

Diversità o pluralità?

Come abbiamo accennato, la storia della tutela delle diversità negli ambienti di lavoro è iniziata come risposta al palesarsi del cosiddetto gender gap, con un’azienda internazionale del calibro di IBM che per prima – negli anni Settanta – ha portato la questione alla ribalta, seguita da Ikea e Microsoft.

Tuttavia, come sottolineato in apertura da Maria Cristina Bombelli di Wise Growth, ancora nel 2000 questo tema non risultavadiversity_management_bombelli particolarmente considerato. “Il punto di partenza” ha spiegato Bombelli “deve essere una conoscenza chiara dei meccanismi di esclusione che possono attuarsi, nonché una comprensione profonda della diversità propria di ciascuna azienda. In caso contrario si rischia di rimanere in superficie, adottando iniziative ‘di moda’ incapaci di incidere davvero sulla realtà organizzativa”.

Secondo quanto rilevato da una ricerca svolta da Wise Growth per indagare lo stato dell’arte in Italia a proposito di diversity e inclusion, nel nostro Paese la cultura manageriale risulta ancora fortemente maschile. Per promuovere davvero un cambiamento serve quindi innanzitutto un forte commitment del management, che può essere alimentato e sostenuto attraverso l’individuazione di regole e criteri di valutazione capaci di aiutare i decisori a oltrepassare apparenze e bias. “Si tratta sostanzialmente di essere in grado di cogliere le linee di faglia interne a ogni singola organizzazione, che causano l’esclusione di alcuni suoi membri, svolgendo un ruolo da antropologo d’azienda” ha proseguito Bombelli. Tra le tendenze in atto nelle 55 realtà imprenditoriali italiane oggetto d’indagine, ricordiamo il management inclusivo, la formalizzazione in policy delle varie iniziative (44%), l’istituzione di ruoli formali deputati alla gestione e alla tutela della diversità (58%) o di gruppi di lavoro dedicati (42%). A tal proposito, Maria Cristina Bombelli ha sottolineato la necessità di fare attenzione a non ricreare e rafforzare ulteriormente – benché con l’intento di debellarli – stereotipi e cluster di diversity.

Tra i benefici connessi alle strategie di inclusione della diversità, gli intervistati hanno indicato innanzitutto il miglioramento del clima aziendale, rivelandosi al contrario poco consapevoli di quelli più “materiali”, come benefici economici e maggiore competitività. “Le sfide dei prossimi 5 anni – stando a quanto rilevato – riguarderanno diversity generazionale, work-life balance e gender diversity” ha concluso Maria Cristina Bombelli. “Una spinta decisiva verso il cambiamento di mindset possono darla anche le parole: sarebbe per esempio importante, a mio avviso, iniziare a parlare di pluralità invece che di diversità”.

Non solo etica: i vantaggi economici della diversity

Prima di vedere il diversity manager in azione, soffermiamoci sul ruolo che la diversity può giocare in ambito di innovazione e incremento di business.

diversity_management_Colombo_RivaQuesto tema è stato affrontato da Cristina Colombo e Leda Riva di Kantar: “Attualmente non è difficile dimostrare che sì, la diversity paga. Secondo una recente indagine, il 75% delle aziende associa ad essa un miglior ascolto dei clienti esterni, il 77% una maggiore customer satisfaction, il 78% una più elevata capacità di innovazione, l’83% una migliore brand reputation e il 90% un incremento della talent attraction”.

A questi dati si possono aggiungere quelli di McKinsey, che dimostrano come la presenza in azienda di significativi livelli di gender e cultural diversity siano solitamente correlati a un aumento dei profitti pari al 15%; un diversity score superiore alla media, inoltre, porta solitamente a un +45% delle revenue connesse all’innovazione, mentre l’attuazione di politiche inclusive innesca dinamiche di crescita personale, professionale e di business.

Ecco spiegato perché ogni azienda dovrebbe preoccuparsi di tutelare la diversity al proprio interno: “Si tratta in ultima analisi di un potente mezzo per favorire crescita, innovazione, engagement e talent attraction, un mix strategico fondamentale nel mercato attuale” hanno sottolineato Colombo e Riva. “Le aziende devono lavorare allo sviluppo di un vero e proprio mindset ‘diverse’ e al ripensamento della cultura aziendale interna in chiave anche di integrazione tra competenze e abilità differenti – si pensi per esempio alle competenze STEM e STEAM –, ricordando che tra le skill più richieste da qui al 2020 ci sono complex problem solving, critical thinking, creatività, intelligenza emotiva e flessibilità cognitiva”.

Dalla teoria alla pratica: diversity in action

Il quadro teorico dovrebbe ormai essere abbastanza chiaro: abbiamo parlato di diversity, ma cosa significa in pratica agire per tutelarla e valorizzarla? Fabio Galluccio, Valentina Dolciotti e Matteo Matteini ce lo hanno spiegato partendo dalla loro esperienza concreta.diversity_management_Galluccio

Fabio Galluccio di Jointly, per esempio, è stato diversity manager in Telecom Italia dal 2009 al 2016. “Le tre parole chiave per me sono state – e sono tutt’ora – organizzazione, cultura e azioni” ha esordito Galluccio. “Bisogna innanzitutto mappare la diversity in azienda, studiare le normative esistenti, parlare e confrontarsi per arrivare a conoscere la diversity in tutte le sue declinazioni – anche quelle meno visibili – per non rischiare di ‘privilegiarne’ una rispetto alle altre. E, soprattutto, è necessario lavorare sul coinvolgimento di tutte le persone in azienda, qualsiasi sia il loro ruolo”. Come Maria Cristina Bombelli prima di lui, anche Fabio Galluccio si è soffermato sull’importanza delle parole: “Dal mio punto di vista si deve fare attenzione al modo in cui viene utilizzato il termine inclusion, poiché si corre il rischio di trasformarlo in un sinonimo di omologazione”. La chiave è essere in grado di aprire e mantenere aperto il dialogo nella consapevolezza degli stereotipi di cui ciascuno è portatore, consapevolezza che dovrebbe consentirci di sospenderli quando ci relazioniamo con gli altri” ha quindi aggiunto Bombelli.

Anche Valentina Dolciotti, diversity e inclusion consultant da 7 anni, ha portato numerosi esempi di cosa voglia dire promuovere concretamente la diversity_management_Dolciottidiversity: “Se consideriamo le differenze generazionali abbiamo per esempio le quote argento, il reverse mentoring, il counseling e la formazione ad hoc” ha spiegato Valentina. “Per la gender diversity si attuano iniziative a supporto della genitorialità, monitoraggio del pay gap o progetti STEM dedicati alle donne; per quanto riguarda la disabilità, sono stati per esempio introdotti tool per semplificare l’interazione tra colleghi, giornate esperienziali, momenti di formazione per imparare a comunicare attraverso il linguaggio dei segni” ha proseguito Dolciotti. “Per la categoria LGBTQIA possono essere promosse iniziative di sensibilizzazione, supporto economico e psicologico dedicato ai transgender, mentre per la diversità culturale e religiosa abbiamo esempi come il giorno di chiusura aziendale al venerdì per i dipendenti di fede islamica, il riconoscimento delle varie festività religiose, momenti di condivisione degli errori migliori, ovvero quelli che contro ogni previsione hanno portato crescita e successo, tutorship per chi espatria, corsi gratuiti di italiano per i richiedenti asilo”.

In merito all’integrazione e all’inclusione lavorativa di stranieri e migranti è intervenuto infine Matteo Matteini, che attraverso la sua Vitality Onlus si occupa appunto di promuovere lo sviluppo di comunità, nuove occasioni di crescita e sviluppo, percorsi di accompagnamento al lavoro a loro dedicati. “Il diversity_management_Matteinitratto caratteristico delle nostre attività è la coprogettazione attraverso il design thinking, cui si aggiunge il riconoscimento del valore intrinseco di ciascun progetto di vita individuale. A ben guardare, il progetto migratorio è in fondo assimilabile a un progetto imprenditoriale” ha spiegato Matteo. Un simile approccio orizzontale permette di valorizzare fino in fondo le risorse esperienziali e di rete di ciascuno, spesso non adeguatamente e pienamente percepite e sfruttate. “Tutto questo ci ha permesso di realizzare comunità inclusive e integrate in cui la pluralità è davvero una risorsa e una ricchezza, soprattutto in termini di pensiero laterale”.

Discutere e praticare la diversity chiama dunque in causa dimensioni molteplici – etiche, politiche, culturali ma anche economiche e tecnologiche. Una sfida complessa e appassionante, che può condurci a individuare e applicare strategie, connessioni e soprattutto modalità innovative per abitare e far vivere comunità di lavoro che – come abbiamo provato a mostrare – hanno e avranno sempre più caratteristiche inedite rispetto al passato.

Emma Pisati – HEI Human Experience Insights

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