Employee engagement, il banco di prova per la cultura manageriale moderna

Tratta sempre i tuoi collaboratori esattamente nel modo in cui vuoi che loro trattino i tuoi migliori clienti”. Questo consiglio di Stephen R. Covey punta il dito contro una disattenzione che spesso caratterizza manager e imprese di ogni settore e dimensione: la smania di valorizzare la centralità del cliente si accompagna spesso alla noncuranza per la soddisfazione e il coinvolgimento dei dipendenti. Peccato però che questi ultimi siano l’elemento discriminante per garantire sostanza e successo a qualsiasi strategia di crescita e differenziazione dell’azienda sul mercato. L’Osservatorio Employee Relations & Communications dell’Università IULM lo sa bene, e da anni è attivo per diffondere questa consapevolezza nelle organizzazioni e monitorare i progressi del mercato italiano. In vista del nostro evento “The Humanizing Era. Come cambia il lavoro”, Alessandra Mazzei e Luca Quaratino – rispettivamente direttore e membro del comitato scientifico dell’Osservatorio – illustrano i principali risultati emersi dall’ultima indagine dedicata all’employee engagement nelle aziende italiane.

Comunicazione e relazioni: quanto sono diffuse e radicate nella cultura delle aziende italiane?

“Negli ultimi due anni l’attività svolta nell’ambito dell’Osservatorio Employee Relations and Communication dell’Università IULM ci hacomunicazione_interna permesso di avere una visione multi-prospettica sul tema della gestione delle relazioni e della comunicazione all’interno delle organizzazioni. La nostra attività di ricerca è partita da un assunto: le persone sono fondamentali per il vantaggio competitivo delle aziende. In particolare, le organizzazioni hanno bisogno di collaboratori engaged, che agiscano cioè con un focus strategico sugli obiettivi aziendali. Abbiamo dunque cercato di comprendere meglio le dinamiche con cui si origina l’engagement dei collaboratori e come promuoverlo, verificando in che modo le aziende italiane si muovano in questo senso. Nello specifico abbiamo realizzato, fra il 2016 e il 2018, una survey su un campione statisticamente rappresentativo delle grandi aziende italiane manifatturiere e di servizi con più di 500 dipendenti, che ha coinvolto 173 referenti del people engagement per indagare gli approcci manageriali adottati dalle imprese italiane per favorire l’engagement; una survey su 147 collaboratori, interpellati per comprendere quali siano dalla loro prospettiva i fattori più rilevanti per l’engagement; 13 casi di studio su altrettante aziende per approfondire le loro pratiche di people engagement; 10 interviste a esperti del settore. Dai nostri studi emergono molti chiaroscuri. Ci siamo imbattuti in casi di eccellenza, esempi di aziende in cui i responsabili della gestione delle risorse umane, i manager della comunicazione interna e il top management agiscono in sintonia per creare contesti organizzativi in cui le relazioni sono inclusive, le persone sono gestite in un’ottica di valorizzazione, la giustizia organizzativa è percepita come equa. Molto più spesso, però, nelle aziende italiane si configurano contesti lavorativi che favoriscono il disengagement, con relazioni di tipo gerarchico, una gestione delle risorse umane di tipo amministrativo e la prevalenza di iniquità organizzativa. Basti pensare che, se quantifichiamo tramite un numero standardizzato che va da 0 a 1 il livello medio di engagement rilevato dai manager e dai collaboratori interpellati nelle due survey, in entrambi i casi esso si assesta su un valore di 0,63. Questo numero equivale a una scarsa sufficienza, che non appare soddisfacente. C’è dunque ancora molto da fare, e per questo l’Università IULM continuerà ad approfondire questi temi con l’obiettivo di contribuire a sviluppare una moderna cultura manageriale in questo senso”.

Che cosa s’intende con il termine “engagement” e quali sono i fattori e i comportamenti che lo alimentano?

“Dal punto di vista scientifico, l’employee engagement può essere definito come un tratto personale di disposizione all’entusiasmo, che quando interagisce con fattori situazionali determina uno stato psicologico persistente di assorbimento cognitivo nel proprio lavoro, dedizione emotiva e vigore, cioè energia che viene immessa nell’attuare il proprio ruolo professionale. Lo stato psicologico persistente di assorbimento, dedizione e vigore conduce a comportamenti strategici in-role ed extra-role, orientati a obiettivi rilevanti per l’organizzazione. Definire un modello completo delle diverse variabili antecedenti è molto complesso; in ogni caso, i fattori del contesto organizzativo sono di primario interesse, in quanto il management può agire su di essi. Quest’ultimo può costruire attivamente un contesto lavorativo engaging muovendo tre leve: la gestione delle risorse umane, la giustizia organizzativa e la relazione con i collaboratori. L’engagement si origina in contesti organizzativi caratterizzati da relazioni con i collaboratori inclusive, da un approccio alla gestione delle risorse umane teso a valorizzarle, e da equità e trasparenza nei processi di gestione delle persone. Tuttavia, attraverso la survey IULM sulle grandi aziende italiane, è emerso che solo nel 13% delle aziende del campione si configura un contesto organizzativo pienamente engaging, grazie all’adozione di un approccio alla relazione con i collaboratori di tipo inclusivo, un approccio alla giustizia organizzativa equo e un approccio valorizzante alla gestione delle risorse umane. Ben il 43% delle aziende ha invece relazioni coi collaboratori di tipo gerarchico, giustizia organizzativa non equa e gestione delle risorse umane di tipo amministrativo, creando dei contesti organizzativi che favoriscono il disengagement. Nel restante 44% delle aziende i fattori di engagement e disengagement convivono, generando dinamiche imprevedibili per l’engagement dei collaboratori”.

Disengagement e burnout: in cosa consistono questi due “spauracchi” per le aziende?burnout

“La letteratura scientifica individua diversi concetti limitrofi all’engagement. Alcuni indicano la sua mancanza: disengagement e not-engagement, cioè il distacco dal ruolo lavorativo; disengagement cinico, cioè la volontà di non essere coinvolti e addirittura di lasciare l’organizzazione o ridurre la prestazione lavorativa al di sotto delle aspettative aziendali. Entrambi indicano stati psicologici di passività. Altri termini indicano comportamenti: il disengagement attivo, che prelude a comportamenti attuati per creare problemi, e il burnout, cioè un impegno inefficace a causa dell’esaurimento delle energie. I collaboratori attivamente disengaged danneggiano l’azienda in modo volontario, quelli caratterizzati da disengagement neutrale oppure cinico ostacolano comunque il raggiungimento degli obiettivi, perché si fermano al minimo indispensabile. Le aziende dovrebbero dunque agire per evitare l’insorgere del disengagement in qualunque accezione. Per quel che riguarda invece il burnout, esso si verifica in collaboratori che mostrano un livello di engagement talmente estremo da diventare esausti e quindi non più efficaci. In quest’ottica, l’azienda dovrebbe perseguire il cosiddetto sustainable engagement, cioè adottare pratiche per sostenere il livello di engagement nel tempo, per esempio tramite periodi di temporanea riduzione delle energie profuse nel lavoro, dedicati al riposo e ad attività extra lavorative”.

Tra i risultati emersi dalla ricerca quale vi ha colpito di più e quali meriterebbero maggiore attenzione da parte di aziende e mercati?

“Abbiamo chiesto ai manager responsabili dell’employee engagement quale sia nella loro percezione il principale fattore inibitore dell’engagement: è emersa l’incoerenza tra le dichiarazioni e le azioni dei manager, con una media di 4,68 su una scala da 1 a 5. Segue l’arroganza, con manager che tendono a superbia, indifferenza o cinismo (4,47). Un’azione manageriale incoerente, e magari anche arrogante, è insomma il principale distruttore dell’engagement: questo è un principio che il management di ogni organizzazione dovrebbe sempre tenere presente. Alla domanda su quali siano le leve che incidono di più sull’engagement, gli stessi responsabili dell’employee engagement hanno risposto – in ordine di rilevanza – l’esempio del management (media 4,56), la gestione delle risorse umane (4,53), la relazione con il capo (4,42) e la comunicazione interna (4,23). Addirittura il 62% dei rispondenti ha attribuito rilevanza 5, ovvero “moltissimo”, all’esempio del management, a riprova della sua rilevanza”.

Quali sono i principali comportamenti pro-company e anti-company che avete rilevato e quanto sono diffusi all’interno delle aziende intervistate?

“I collaboratori mettono costantemente in atto comportamenti di comunicazione che possono essere di voce o di silenzio. La voce è l’espressione di contenuti in modo esplicito tramite parole, gesti, segni o qualunque mezzo, mentre il silenzio è l’assenza di comunicazione esplicita, sotto qualunque forma, in situazioni nelle quali il soggetto interessato avrebbe invece un contenuto da comunicare o condividere. I collaboratori engaged tendono a mettere in atto comportamenti di voce o di silenzio pro-company, cioè cooperativi e supportivi verso l’azienda. I collaboratori disengaged mettono invece in atto comportamenti di voce e di silenzio anti-company, che hanno cioè il fine di arrecarle danno. Interrogati sui comportamenti di comunicazione messi in atto dai collaboratori a supporto dell’azienda, in generale i manager sono più ottimisti dei collaboratori, e considerano i comportamenti di voce e silenzio pro-company leggermente più diffusi. Tuttavia i collaboratori sono più positivi dei manager su alcuni comportamenti molto importanti come quelli di brand ambassadorship, che ottengono una media di 3,51 per i collaboratori e 3,45 per i manager. Lo stesso vale per l’espressione del dissenso, che nel nostro studio è inteso in modo costruttivo, mosso dall’intenzione di migliorare l’organizzazione: 3,40 per i collaboratori contro 3,27 dei manager. Sussiste inoltre un forte disallineamento sul tema della riservatezza di informazioni potenzialmente dannose: i manager considerano questo comportamento al secondo posto per diffusione (3,57) mentre i collaboratori all’ultimo (2,43). Rispetto ai comportamenti di comunicazione dannosi per l’azienda, parlare alle spalle è il comportamento di voce anti-company considerato più diffuso sia dai manager (2,80) sia dai collaboratori (3,22). In generale prevalgono comunque comportamenti legati al ‘non fare’, sia per i manager sia per i collaboratori: autocensura sui social media interni, mancata smentita di falsità, ostruzionismo, non dare informazioni rilevanti, riservare il ‘trattamento del silenzio’ ad alcuni colleghi”.

La vostra ricerca permette di confrontare il punto di vista di manager e collaboratori sul tema dell’engagement:divergenze prevalgono le divergenze o l’allineamento di vedute? Quali sono gli aspetti più controversi?

“La ricerca IULM ha mostrato che spesso vi è un disallineamento fra aziende e collaboratori rispetto alle pratiche volte a promuovere l’engagement. Sembra cioè che gli sforzi dei manager per aumentare l’employee engagement si concentrino su leve che non sono prioritarie per i collaboratori, con il rischio di non rispondere appieno alle attese di questi ultimi. Per esempio, nell’ambito della gestione delle risorse umane collaboratori e manager mostrano di avere focus diversi: per i primi sono più rilevanti le pratiche per la sicurezza, l’autonomia e l’employability (tutele per il lavoratore, contratto a tempo indeterminato, smart working e retraining), per i secondi le leve per lo sviluppo interno (job posting e job rotation). Ancora, sul piano della comunicazione interna, i manager ritengono più rilevanti gli strumenti di comunicazione mediata come blog, newsletter, e-mail, intranet e TV aziendali. Per i collaboratori, invece, questi strumenti sono i meno rilevanti, e prediligono le iniziative che consentono un’interazione diretta con il management. Addirittura emerge che la modalità di comunicazione più rilevante per i collaboratori, cioè gli incontri informali con i top manager, è fra quelle meno rilevanti per i manager”.

La ricerca contiene anche l’intervista a dieci esperti di employee engagement: quali tematiche o problematiche hanno evidenziato i loro interventi sull’argomento?

“Anche gli esperti hanno rilevato come la situazione del contesto italiano non sia delle migliori, con un disengagement diffuso. Confermano quindi quanto evidenziato dalle due survey sui manager delle grandi aziende e sui collaboratori. Gli esperti hanno dunque sottolineato l’urgenza di puntare su fattori motivatori di engagement, quali sense-making, processi comunicativi circolari, riconoscimento individuale, ascolto continuo e cura della dimensione affettiva. Allo stesso tempo, le aziende devono tenersi lontane dai fattori che distruggono l’engagement: di nuovo l’incoerenza manageriale, la perdita di credibilità del progetto aziendale, il cinismo e l’indifferenza verso i collaboratori. Infine, gli esperti hanno evidenziato come favorire l’engagement richieda lo sforzo e l’impegno coordinato di una pluralità di attori corresponsabili su questo tema: il vertice aziendale, il management di linea, la direzione delle risorse umane e la funzione della comunicazione interna. In particolare, per quel che riguarda la funzione risorse umane, gli esperti sottolineano come la promozione dell’engagement dovrebbe essere il suo mandato istituzionale, in quanto è corresponsabile di diversi processi deputati a integrare le persone negli obiettivi organizzativi: dalla valutazione alla formazione e allo sviluppo”.

C’è una case history di employee engagement che vorreste portare come esempio alle aziende italiane?

“La ricerca IULM ha incluso 13 case histories che hanno fornito interessanti indicazioni su pratiche e principi gestionali che le aziende implementano per sviluppare contesti engaging. In particolare abbiamo approfondito le esperienze di Coopselios, Eni, Ferrero, Gruppo Sella, Henkel, LFoundry-SMIC, MM, Natuzzi Group, NH Hotel, Sanofi, Unicoop Firenze, Vodafone e Whirlpool, che hanno sostenuto il nostro progetto. Gli studi di caso hanno apportato punti di vista diversificati, che riflettono la varietà delle aziende studiate e al contempo hanno messo in evidenza una serie di elementi comuni. Per esempio, è emersa l’importanza di un lavoro coordinato e coerente tra la funzione risorse umane, la funzione comunicazione interna e il top management per promuovere l’engagement. Ancora, l’ascolto dei collaboratori, delle loro opinioni e delle loro istanze sembra essere un’attività chiave, e ugualmente rilevante è la propensione a favorire la dialogo_confrontopartecipazione e la voce dei collaboratori. Quest’ultima si esprime tramite progetti ad hoc che promuovono il contributo dei collaboratori su specifici temi, per esempio la valorizzazione della diversità o l’individuazione di soluzioni a particolari problematiche di business, e con l’impiego di tecniche e format che stimolano l’espressione della voce e la co-costruzione dei contenuti anche nel corso dei più classici eventi aziendali”.

Quali sono le azioni più urgenti che i manager delle aziende italiane dovrebbero attuare per migliorare l’employee engagement e la comunicazione interna?

“Come già sottolineato, è importante che ciascuna azienda si prodighi per allineare le pratiche a favore dell’engagement con le reali attese dei propri collaboratori, tanto nell’ambito della gestione delle risorse umane quanto in quello della comunicazione interna, tenendo comunque sempre presente che ciò che conta in primo luogo è la coerenza dell’azione manageriale e l’esempio del management. Un altro fronte da presidiare con attenzione è quello del dialogo manager-collaboratori. Interpellati su una serie di pratiche manageriali per l’engagement, i collaboratori hanno evidenziato come le più importanti per loro siano proprio il dialogo manager-collaboratori – per fornire informazioni o spiegare obiettivi, piani, strategie (4,46) – e le conversazioni informali per sollecitare il feedback dei collaboratori (4,12). Questo risultato è analogo a quello emerso dalla survey sulle aziende, sebbene con medie più alte per i collaboratori: i responsabili del people engagement delle grandi aziende hanno infatti attribuito in media un valore di 3,79 al dialogo manager-collaboratori, e di 3,41 alle conversazioni informali per sollecitare il feedback dei collaboratori”.

Emma Pisati – HEI Human Experience Insights

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