“Tutto ciò che è reale è razionale”: sembrano terminati i tempi in cui veniva considerata incrollabile la validità di simili affermazioni, e dell’impostazione teorica ad esse sottostante, di cui conosciamo ormai la parzialità. Il benessere, infatti, non dipende solo dal possesso di beni materiali ma anche dal contesto relazionale in cui siamo inseriti, tanto a livello personale quanto a livello sociale e lavorativo. È quindi strategico per le imprese prestare una crescente attenzione alla dimensione del benessere e della felicità dei propri collaboratori, perché essi dimostrano di essere a tutti gli effetti dei fattori chiave per assicurare la produttività e la competitività aziendali. Questa la convinzione che anima RWA Consulting, società con una solida esperienza nella gestione di progetti di advisory complessi in ambito di welfare aziendale, smart working e mobility management.
La consulenza si rinnova
Se da una parte l’attenzione per il benessere dei lavoratori e per il “lato umano” del business si sta diffondendo, il rischio banalizzazione in questo ambito è sempre in agguato. Emanuele Lazzarini, general manager di RWA Consulting, ha discusso insieme a noi di welfare e smart working, e dell’approccio innovativo seguito dalla società per creare piani personalizzati capaci di promuovere lo sviluppo di una nuova cultura all’interno delle aziende. “Il nostro tratto distintivo” ha esordito Emanuele “è quello di essere una piattaforma con un’identità chiara e una conoscenza ampia del mondo HR, che consente di sviluppare progetti verticali e specifici: ogni nostro progetto prende le mosse da una vision chiara che connette il benessere e la felicità delle persone con la competitività delle aziende, due obiettivi che dal nostro punto di vista contribuiscono reciprocamente l’uno alla crescita e allo sviluppo dell’altro. Il rischio di banalizzazione si presenta quando chi ci ingaggia non riesce a cogliere appieno il valore dei cambiamenti che sta introducendo, cioè fatica a ricondurre le attività avviate a un quadro più ampio; per questo non tralasciamo mai di supportare le aziende affinché riescano a inserirle in un progetto sistemico di rinnovamento, senza limitare l’attenzione ai benefici di breve termine ma considerando al contempo le opportunità generate per i dipendenti e lo sviluppo dell’organizzazione nel suo complesso. Un progetto di smart working, per esempio, può essere il primo tassello di un piano più ampio rivolto a numerosi altri aspetti come la leadership e la responsabilizzazione. Ecco perché nelle nostre attività seguiamo un approccio trasversale e non solo specifico sui vari settori verticali; va da sé che le principali difficoltà che incontriamo sono proprio la iper-specializzazione e la iper-verticalizzazione”.
La felicità è un paradosso
Benessere e competitività sono dunque il motore da cui prende avvio l’intero sistema creato dalla società di consulenza italiana, sistema che si impegna a trasformare ogni richiesta di servizio verticale in un ponte verso un approccio olistico e sistemico al benessere aziendale, traendo ispirazione anche dagli insegnamenti e dalle teorie dell’economia civile e dell’economia della felicità. “Quando descrivono cosa voglia dire essere innovativi nel pensare al benessere delle persone in azienda, gli economisti civili come Stefano Zamagni” ha proseguito Emanuele “sostengono, in ultima analisi, che il successo e l’insuccesso delle organizzazioni oggi non si giocano più principalmente sul possesso di materie prime, ma sull’innovazione e quindi sulla conoscenza. È perciò fondamentale per le aziende far sì che i propri collaboratori e dipendenti siano il più possibile stimolati ad applicare e scambiarsi conoscenze, e questo si ottiene creando un ambiente lavorativo caratterizzato da fiducia reciproca e libertà d’iniziativa, in cui le persone non devono semplicemente obbedire a ordini che calano dall’alto ma hanno la possibilità – e, per così dire, l’obbligo – di contribuire ai processi decisionali per creare innovazione e quindi sostenere la competitività. Questo focus su relazioni umane e competitività si concilia perfettamente con quanto sostenuto da coloro che hanno fornito una spiegazione al paradosso della felicità, uno studio del 1974 condotto dall’economista americano Richard Easterlin, che per primo ha osservato come reddito e felicità individuale crescano all’unisono fino a una certa soglia, oltre la quale – anche se il primo continua a salire – si registra un crollo della seconda. Questo ha ovviamente messo in crisi la validità di tutte le teorie economiche fino a quel momento considerate indubitabilmente vere, secondo le quali, indipendentemente dal reddito, ogni singolo aumento di ricchezza, generando ‘utilità’, era in grado di accrescere la felicità. Le spiegazioni di questo paradosso – che si è dimostrato valido sia a livello di sistema che a livello individuale – si sono moltiplicate negli anni: il filone principale punta i riflettori sui beni relazionali, sostenendo che il ‘cortocircuito’ denunciato da Easterlin scaturisce dalla tendenza delle persone a sacrificare beni come i rapporti di amicizia, gli affetti, le relazioni gratuite e autentiche a causa dell’impulso ad aumentare costantemente i propri guadagni. Il monito per istituzioni, politica e organizzazioni è chiaro: per far felici le persone bisogna puntare sulle relazioni umane, sulla loro piena attuazione, sviluppo e valorizzazione. Nello specifico delle realtà aziendali, riuscire a creare e promuovere un ambiente lavorativo fertile, un clima di confronto, fiducia e responsabilizzazione porta benefici a tutti i soggetti interessati. All’estero ci si sta già muovendo in questa direzione: nel Nord Europa e in America, per esempio, si sta diffondendo la figura del Chief Happiness Officer, che è chiamata in primis a lavorare sui risultati (feedback, rewarding, gratificazioni, ecc.) e sulle relazioni. In Italia non ci siamo ancora arrivati – a parte poche eccezioni, come BASE Milano – ma si tratta comunque di un fenomeno che pian piano si diffonderà”.
Cosa vuol dire davvero “fare smart working”
Una tendenza che si sta diffondendo è sicuramente quella dello smart working. “Abbiamo scoperto sul campo, accompagnando aziende e organizzazioni nell’implementazione dei progetti, che lo smart working è uno strumento molto più potente di quanto sembri. Se infatti, a una prima riflessione superficiale, può apparire come una sorta di telelavoro 2.0, un nuovo termine per riferirsi alla possibilità di far lavorare le persone da remoto, mostrarsi disponibili verso eventuali esigenze della loro vita privata, ridurre la burocrazia e i costi che l’azienda deve sostenere” ha spiegato Emanuele, “in realtà fare smart working significa recidere un pezzo del legame fisico tra l’azienda e il suo dipendente, rivoluzionando di fatto le modalità di organizzazione, svolgimento e valutazione dell’attività lavorativa. È quindi tutt’altro che banale il fatto di avere delle persone che per un certo numero di giorni al mese non sono fisicamente presenti sul luogo di lavoro: da questa prospettiva il valore dello smart working è la sua capacità di spingere l’intera azienda a ripensare radicalmente le relazioni tra capi e collaboratori, ma anche tra pari, e di cogliere tutta una serie di opportunità legate all’innovazione, in primis la digitalizzazione. Le trasformazioni riguardano inoltre leadership e management, che ovviamente devono cambiare perché si ‘perde’ parte del controllo sui propri collaboratori e si deve di conseguenza imparare a gestire un tipo di relazione differente, in parte intermediata da uno schermo, basata sulla fiducia e sull’engagement di ciascuno – valori, questi ultimi, in grado di accrescere i livelli di produttività e disponibilità dei dipendenti rispetto alle richieste aziendali. Ovviamente l’adozione dello smart working come nuova filosofia organizzativa che a cascata porta innovazione e incide su buona parte delle dinamiche aziendali è un processo lungo e laborioso, che impone di lavorare tanto anche sulla formazione, con attività dedicate allo sviluppo di soft skill, nuovi stili di leadership e così via”.
Coinvolgimento e comunicazione
Proprio le ricadute a livello collettivo di questo tipo di progetti suggeriscono come le aziende e i manager possano promuoverli con successo: “Tendenzialmente prevale l’approccio top-down, quindi siamo chiamati dalle risorse umane o dai vertici aziendali per ideare un progetto di welfare o smart working che in seguito verrà comunicato alle persone. Ci sono ovviamente delle eccezioni: per esempio, dove è presente una rappresentanza sindacale, non solo l’introduzione del welfare o dello smart working vede coinvolto fin da subito questo soggetto, ma addirittura è proprio quest’ultimo a farne richiesta in fase di contrattazione. Anche per quanto riguarda il coinvolgimento dei dipendenti in fase di definizione dei progetti la realtà varia molto da azienda ad azienda: ce ne sono alcune così attente alla cultura della condivisione da garantire la presenza, per esempio, di ambasciatori del cambiamento” ha proseguito Emanuele. “Bisogna poi fare un ulteriore distinguo per smart working e welfare: nel primo caso, infatti, se non viene coinvolta almeno la linea manageriale il rischio è quello di fare un buco nell’acqua, perché è molto difficile – se non impossibile – attuare un cambiamento organizzativo imponendolo dall’alto. Nel caso del welfare il confronto con i dipendenti è meno essenziale: in passato si tendeva a lavorare di più sull’analisi dei bisogni, ma oggi le piattaforme welfare più avanzate (come quella della nostra capogruppo, Easy Welfare) permettono di offrire ai collaboratori una gamma pressoché completa di servizi, in grado di rispondere ai bisogni di ciascuno. Nel caso dei flexible benefit, perciò, l’azienda deve più che altro sviluppare la capacità di comunicare in modo chiaro i benefici, soprattutto se – in conseguenza della legge di stabilità del 2016, che ha introdotto la convertibilità del premio di risultato in welfare, previo accordo sindacale e individuazione dei KPI incrementali – si decide di attuare questa nuova possibilità. In questo caso la comunicazione è fondamentale affinché i dipendenti abbiano ben chiari i vantaggi connessi alla conversione del premio in servizi di welfare detassati; laddove questa manca c’è spesso diffidenza da parte dei lavoratori”.
Dove abita l’innovazione
A questo punto ci si potrebbe chiedere quale sia lo stato dell’arte nel nostro Paese: “Al momento i dati delineano uno scenario a due velocità. Per quanto riguarda lo smart working, c’è innanzitutto la variabile della dimensione aziendale, che influenza ancora i livelli di consapevolezza e attuazione. Le organizzazioni più grandi sono attive in tale ambito, consapevoli, hanno avviato progetti già da tempo e sono spesso pionieri in materia di innovazione. Al contrario, le PMI sono il grande ritardatario” ha dichiarato Emanuele. “Anche se il numero di aziende di piccole e medie dimensioni che si stanno attivando è in crescita, c’è ancora tantissima strada da fare, sia in termini di consapevolezza che in termini di attuazione. A questo si aggiunge la variabile geografica: come per molti altri ambiti, anche per lo smart working ci sono centri e periferie. Milano e la Lombardia sono un centro, così come Roma, mentre il resto del Paese è sicuramente un passo più indietro. Considerando invece il welfare, la situazione è all’incirca la medesima, ma con almeno quattro o cinque anni di vantaggio. La differenza tra i due ambiti sta nel fatto che il welfare è concepito prevalentemente come misura di integrazione retributiva, di aumento del potere d’acquisto del dipendente e di risparmio fiscale per l’azienda, tutti aspetti che spianano la strada alla sua attuazione senza richiedere necessariamente una cultura aziendale particolarmente moderna. Lo smart working, come ho già detto, richiede uno sforzo maggiore, perché è un processo di cambiamento organizzativo. Detto questo, i confini delineati sono tutt’altro che netti e invalicabili: la cultura manageriale che possiamo definire ‘moderna’, ’smart’ o ‘innovativa’ attraversa infatti in modo trasversale realtà aziendali di ogni settore, dimensione e posizione geografica, così come quella ai suoi antipodi. Dipende tutto, in ultima istanza, dalla mentalità che guida le organizzazioni, quindi dai vertici e dal management”.
Come sarà il futuro della consulenza
La situazione attuale sembra quindi essere indirizzata verso un futuro all’insegna del cambiamento culturale e organizzativo delle aziende: “In tema di smart working, per noi la grande sfida di mercato sono ovviamente le PMI, appunto perché si tratta di un settore in cui a livello di numeri c’è tanto lavoro da fare. Lato welfare, invece, le necessità sono più variegate: in questo caso RWA si occupa di affiancare le aziende nella fase di definizione del piano e delle fonti di finanziamento, e di valutazione dell’efficacia del progetto. In particolare lavoriamo sulla costruzione dei premi, che possono assumere due forme: il premio di risultato e le liberalità ‘on-top’. Il primo è realizzabile esclusivamente all’interno di un accordo sindacale o territoriale ed è ancorato a dei KPI per la misurazione degli incrementi di produttività, qualità, redditività, efficienza e innovazione; il nostro supporto è quindi finalizzato alla strutturazione degli elementi fondativi del premio, così come impone la rigida normativa di riferimento, inclusa la corretta stesura dell’accordo e la negoziazione con le controparti sindacali. Analogamente, nel caso delle liberalità ‘on-top’ RWA interviene in fase di definizione delle caratteristiche di tali liberalità che l’azienda decide di erogare, accompagnandola inoltre nella stesura del documento formale. Non sono poche le aziende che strutturano premi ‘on-top’ secondo una logica flat (quindi a tutti i dipendenti), ma molto spesso le esigenze sono legate all’individuazione di specifiche categorie omogenee. Dal 2017, inoltre, anche i CCNL sono diventati una possibile fonte di finanziamento, introducendo le misure di welfare obbligatorio. Una volta che il piano è stato confezionato e la piattaforma attivata, RWA Consulting monitora l’andamento del progetto, aiutando i referenti a capire se ha avuto successo, se è stato gradito e compreso. Abbiamo poi anche dei prodotti di consulenza complementare, tra cui uno in fase di definizione per misurare il ritorno dell’investimento in welfare, lo SROI (Social Return On Investment) e uno dedicato al total reward, per analizzare la retribuzione complessiva dei dipendenti tenendo in considerazione la parte monetaria fissa e variabile e la parte di benefit immateriali, come smart working, flessibilità oraria, congedo di maternità/paternità esteso. Quantificando il valore complessivo, permettiamo alle aziende di dare al singolo dipendente un’idea precisa della sua retribuzione totale; si tratta di un servizio molto utile sia da un punto di vista di retention sia da un punto di vista di attraction di candidati e talenti, in grado di valorizzare le iniziative di welfare anche in termini economici” ha concluso Emanuele.
RWA Consulting ha partecipato al nostro workshop dedicato al welfare, e il prossimo 23 ottobre parteciperà a quello sullo smart working. Per maggiori informazioni e per iscriverti, visita la pagina dedicata.
Emma Pisati – HEI Human Experience Insights
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